Ecco perché Google può permettersi di eliminare i cookie

Il cookie per due decenni è stato un emblema del modello di pubblicità online che alimenta gran parte del web aperto e le invasioni della privacy che ne derivano. Ora, il cookie come lo conosciamo sta morendo. La pubblicità online continuerà, ovviamente, così come le invasioni della privacy, ma i cambiamenti che stanno prendendo forma modificheranno comunque il modo in cui in futuro navigheremo sul web e definiranno quali aziende lo domineranno.

Il modello
I giganti di Internet stanno costruendo il loro futuro post-cookie. Google sta progettando da un po’ di tempo di eliminare gradualmente i cookie di tracciamento di terze parti nel suo browser Chrome, deprecando quei frammenti di codice che tracciano e riferiscono la nostra cronologia di navigazione per il bene della pubblicità mirata. Ha promesso nel gennaio 2020 che sarebbero spariti entro il 2022. E sappiamo dal 2019 che stava lavorando su metodi meno intrusivi per indirizzare gli annunci.
Google in questa settimana si è impegnata a non costruire o utilizzare alcun sistema che traccia le singole persone attraverso il web. Ciò significa che non sosterrà alcuni degli sforzi nascenti di altri operatori pubblicitari per sostituire i cookie con tecnologie che tracciano l’identità online di un individuo in altri modi, come ad esempio abbinando gli indirizzi e-mail nei database.
David Temkin di Google in un post sul blog ha scritto:
«La pubblicità digitale se non si evolve per affrontare le crescenti preoccupazioni che le persone hanno sulla loro privacy e su come la loro identità personale è utilizzata, rischiamo il futuro del web libero e aperto».
È questo un impegno sostanziale sulla privacy per una società il cui business è costruito sulla pubblicità mirata, e Google merita credito per questo, ma, come alcuni analisti sono stati veloci a sottolineare, non lo sta facendo solo per la non cattiveria del suo cuore, praticamente sta rispondendo alla pressione che arriva da diverse parti: autorità di regolamentazione, sostenitori della privacy, consumatori e soprattutto i suoi rivali.
Apple e Mozilla, i cui modelli di reddito non sono guidati dalla pubblicità, già bloccano i cookie di terze parti per impostazione predefinita nei loro rispettivi browser, Safari e Firefox; mentre Google Chrome rimane il browser più popolare al mondo con un ampio margine, la popolarità dell’iPhone ha contribuito a rendere Safari un concorrente influente, costringendo l’intera industria pubblicitaria mobile a adattarsi o a lavorare intorno ai protocolli di privacy sempre più rigorosi di Apple. L’ultima di queste è la mossa di Apple di richiedere l’opt-in (è riferito alla comunicazione pubblicitaria e commerciale inviata soltanto a chi abbia preventivamente manifestato il proprio consenso a riceverla) per ogni app che vuole tracciare gli utenti, una mossa che ha scatenato una lotta con Facebook.
Google piuttosto che morire sulla collina dei cookie sembra ritirarsi verso ciò che vede come una forma più difendibile di tracciamento, in particolare qualcosa che gli crea alcuni competitivi vantaggi: innanzitutto seguirà ancora il comportamento degli utenti nei propri servizi (si dà il caso che abbia un gran numero di servizi).
In generale, rendere per i siti più difficile rintracciare gli utenti attraverso il web porrà maggiore enfasi sui “cookie di prima parte”, ovvero i dati che le aziende raccolgono mentre gli utenti si trovano sui propri siti o app. Tra Android, Google Search, Gmail, YouTube, Google Home, ecc., è difficile non pensare ad un’azienda con più dati di prima parte come Google.
Dimitrios Katsifis del Platform Law Blog ha detto:
«Google con il suo Google Search è in grado di seguire efficacemente l’attività di esplorazione degli utenti al di là delle sue proprietà; è a conoscenza di ciò che l’utente sta cercando e ha piena visibilità sul risultato della ricerca quando l’utente fa clic».
E poi ci sono i framework di tracciamento alternativi che Google sta sviluppando. Il giornalista Owen Williams di OneZero nel suo articolo spiega che ruotano attorno all’idea di collocare gli utenti in gruppi in base alla loro navigazione piuttosto che legare la cronologia dei loro siti web alla loro identità; alcune versioni cercano di preservare la famigerata (ma relativamente efficace) pratica del “retargeting”, in cui gli utenti vengono ripetutamente presi di mira con annunci per un articolo che hanno visualizzato una prima volta su un sito di shopping.
Il possibile sistema che Google ha specificamente menzionato nel suo post sul blog si chiama “Federated Learning of Cohorts” (o FLoC), la società sostiene che può essere efficace al 95% quanto i cookie, lo spiega in dettaglio nel documento Floc-Whitepaper.
FLoC ha sostenitori ma anche alcuni veementi detrattori: Bennett Cyphers della Electronic Frontier Foundation l’ha definita un’idea terribile, sostenendo che sostituirà i difetti della vecchia privacy con quelli nuovi che «esacerbano molti dei peggiori problemi di non privacy con gli annunci comportamentali, tra cui la discriminazione e il targeting predatorio».
Meriti a parte, è chiaro che Google si sta posizionando per un futuro più attento alla privacy in modi che cercano di preservare il suo dominio, probabilmente a scapito di una sfilza di minori rivali. Esiste un’intera catena del valore costruita attorno ai cookie di terze parti e al monitoraggio dei singoli utenti, e molto di quel valore è probabile che vada in fumo. Società di tecnologia pubblicitaria come The Trade Desk, LiveRamp e Criteo hanno visto le loro azioni crollare dopo l’annuncio di Google, mentre la struttura societaria di Alphabet (comprende il motore di ricerca Google e il canale di video YouTube) è rimasta stabile.
Il quadro generale è che una manciata di giganti – in questo caso Apple e Google -, sono abbastanza potenti da dettare essenzialmente i termini di Internet moderno a tutti gli altri. Che ora si stiano muovendo verso modelli che sono (probabilmente) migliori per la privacy dei consumatori è il benvenuto. Il problema è che ovviamente stanno anche rimodellando il campo di gioco nei loro interessi.
Allora qual è la risposta a questo dilemma? Jules Polonetsky, CEO dell’organizzazione no profit Future of Privacy Forum, ha detto:
«In realtà è piuttosto semplice, non credo che dovremmo aspettarci che le aziende in qualche modo avranno la risposta a livello sociale, ai problemi di privacy e concorrenza. È qui che la legge deve entrare in gioco e creare un campo di gioco equo sia dal punto di vista della privacy sia della concorrenza. Né la privacy né il diritto della concorrenza sono sufficienti, abbiamo bisogno di entrambi».

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About Pino Silvestri

Pino Silvestri, blogger per diletto, fondatore, autore di Virtualblognews, presente su Facebook e Twitter.
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