Studio sociologico: è ora di smettere di parlare di Baby Boomer e Alpha, la motivazione al lavoro non è generazionale, dipende dall’età e dal periodo

«I Millennials non vogliono davvero lavorare. Sono troppo concentrati su avocado, toast e il chai latte cotto a vapore con tè nero infuso con spezie ricoperto di schiuma!». È solo uno dei tanti luoghi comuni espressi dai lavoratori di età superiore ai 50 anni. E coloro che vengono criticati? Beh, spesso rispondono con un annoiato «OK, Boomer», seguito da un’alzata di spalle e da qualche osservazione ironica sulla visione del mondo, eccessivamente orientata alle prestazioni di chi è nato tra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’60.
Il lavoro, a quanto pare, non è così importante per i giovani come lo è per le generazioni più anziane, ma non si tratta solo di baby boomer e millennial, in mezzo a loro c’è la Generazione X, i cui membri sono nati tra il 1965 e il 1980, e poi c’è la Generazione Z, che copre il gruppo di età nato tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del 2010 e quelli della Generazione Alpha nati dopo il 2010.
È stato chiesto a Martin Schröder, professore di sociologia all’Università del Saarland, il suo parere a questa collezione di aspetti generazionali in continua espansione. Ha spiegato:
«Un editore mi ha offerto un contratto lucrativo per un libro se fossi stato in grado di dimostrare che i millennial si comportano in modo diverso rispetto alle generazioni precedenti, per questo motivo ho analizzato centinaia di migliaia di dati che abbracciano quattro decenni. I risultati sono stati sorprendenti, visto quanto è stato scritto sull’argomento e quanto regolarmente se ne parla, non sono riuscito a trovare nulla che suggerisca che l’atteggiamento verso il lavoro e la carriera sia effettivamente legato all’anno di nascita».
L’immagine dei millennial con le loro 20 ore settimanali seduti sulla spiaggia di Bali a codificare “roba per il web” o a fare “qualcosa con i media” è, nella migliore delle ipotesi, semplicemente un cliché. E poi c’è quello dei boomer sull’orlo del burnout a metà dei cinquant’anni, che hanno reso ricco il Paese (e loro) grazie al lavoro per decenni di 70 ore settimanali, mentre la loro vita familiare giace in rovina.
Martin Schröder ha affermato:
«Naturalmente, come tutti i luoghi comuni, c’è un fondo di verità, ma se si guarda più da vicino, le differenze tra le generazioni non sono poi così grandi. Ciò che risulta importante è la fase della vita in cui le persone si trovano quando viene chiesto loro quale sia la loro etica lavorativa o il loro atteggiamento nei confronti del lavoro».
L’ipotesi generazionale afferma che gli atteggiamenti espressi dagli individui, sono fortemente influenzati dal loro anno di nascita, piuttosto che dalla loro età o dall’anno (o periodo storico) in cui sono stati intervistati. Tuttavia, se si prendono in considerazione questi ultimi due effetti, noti rispettivamente come “effetto età” e “effetto periodo”, gli “effetti generazionali” diventano quasi trascurabili.
Ecco un esempio: un sessantenne si lamenta dell’apprendista quindicenne che non è realmente interessato a fare i turni di notte, e a lavorare nei fine settimana per guadagnare di più e salire nella scala della carriera.
Martin Schröder ha affermato:
«È emerso che non si tratta di un problema generazionale. Abbiamo scoperto che tutti noi pensiamo e agiamo in modo diverso rispetto a trent’anni fa. Non è la nostra appartenenza a una particolare generazione a spiegare il nostro pensiero, ma piuttosto la fase della nostra vita in cui ci troviamo quando ci viene chiesto il nostro atteggiamento verso il lavoro. Oggi ognuno di noi pensa al mondo in modo diverso rispetto a qualche anno fa, e questo vale sia per un quindicenne sia per un sessantenne. Se nello stesso momento chiedete a generazioni diverse che cosa pensano del lavoro, scoprirete che le loro risposte sono essenzialmente le stesse».
Il lavoro in altre parole, oggi non è più così importante per noi come 50 anni fa lo era per la società, ciò è vero indipendentemente dal fatto che abbiamo 15 o 50 anni.
Le conclusioni di Martin Schröder hanno una solida base empirica, ha utilizzato i dati di quasi 600.000 persone provenienti dall’Integrated Values Survey, che tra il 1981 e il 2022 ha intervistato individui in 113 Paesi per determinare, tra l’altro, i loro atteggiamenti e valori riguardo al lavoro e alla carriera. Lo studio è stato pubblicato nella rivista Journal of Business and Psychology.
Martin Schröder oltre a esaminare la motivazione al lavoro, ha anche scavato in questa enorme montagna di dati per comprendere meglio l’importanza soggettiva di altri fattori, come il tempo libero, i buoni orari di lavoro, le opportunità di mostrare iniziativa, le ferie generose, la sensazione di poter realizzare qualcosa, di avere un lavoro di responsabilità, di avere un lavoro interessante, di avere un lavoro che si adatta bene alle proprie capacità, di avere persone piacevoli con cui lavorare e di avere l’opportunità di incontrare persone piacevoli nel proprio lavoro.
Il risultato principale: la coorte generazionale a cui appartiene un intervistato non ha praticamente alcun effetto sulle risposte date.
Martin Schröder è dell’avviso che siano tre le ragioni per cui il mito generazionale è così persistente sul posto di lavoro. I giovani in primo luogo, rispetto alle persone di mezza età, come dimostrano i dati sono sempre stati meno disposti a lavorare. E tutti noi, indipendentemente dall’età o dall’anno di nascita, oggi, rispetto al passato, consideriamo meno importante il lavoro retribuito.
Martin Schröder ha affermato:
«Confondendo gli effetti dell’età e del periodo con quelli generazionali, vediamo generazioni che in realtà non ci sono. La seconda ragione per cui vogliamo credere nelle generazioni sembra essere il “generazionalismo”, un nuovo “-ismo” che offre un modo eccessivamente semplificato di spiegare il mondo. Il nostro cervello ama mettere le persone in categorie perché ci permette di vedere il nostro gruppo sociale come migliore di un altro, il che ci fa sentire bene con noi stessi. Ma pensare per “-ismi” come il sessismo e il razzismo, è pericoloso e, come il sessismo e il razzismo, spesso è illegale. Se non stiamo attenti, finiamo per usare generalizzazioni non supportate che non hanno alcun fondamento nella realtà».
Sembrerebbe che l’impulso quasi irresistibile a categorizzare e, se non stiamo attenti, a stereotipare e discriminare sulla base di caratteristiche innate come il colore della pelle o il sesso, si applichi anche a un’altra innata caratteristica, ovvero l’anno di nascita.
Martin Schröder ha affermato:
«Il terzo motivo per cui si tende a ipotizzare effetti generazionali, quando in realtà non ce ne sono, è che per alcune persone questa affermazione è la base del loro sostentamento. I “ricercatori sui giovani” e i “guru generazionali” in parole povere, devono ignorare le scoperte scientifiche che contraddicono il loro modello di business perché il loro guadagno dipende dal fatto che continuano a vendere sessioni di coaching, libri e conferenze “su misura per le generazioni”, che forniscono consigli e indicazioni su quello che, di fatto, in definitiva è un mito mascherato. È questo un rischio che non affronto, chiunque dimostri che non ha senso distinguere tra le generazioni, non ne trarrà ovviamente alcun vantaggio economico. È il tipo di scoperta che di solito da parte di un professore universitario, richiede un’immersione profonda nei dati».

Generazione XStudio sociologico baby boomer