Rohingya i pericoli di una singola parola durante il viaggio del Papa in Myanmar

Rohingya al di fuori del Myanmar, è una parola “semplice”, anche se non necessariamente facile da pronunciare. In gran parte sconosciuta fino a poco tempo fa, ora la sua enunciazione in modo inequivocabile evoca persecuzione e tragedia umanitaria. L’Onu ha detto che per mano delle autorità governative e delle milizie locali, da manuale è “un esempio di pulizia etnica“. Rohingya all’interno del paese buddista, politicamente è un termine gravoso, la semplice menzione può avere devastanti conseguenze.
Rohingya” si riferisce allo Stato di Rakhine (o Arakan) di Myanmar, dove vive la maggior parte dei Rohingya. Le autorità governative e l’esercito preferiscono usare la parola “Bengalis” (Bengalesi), suggerisce chiaramente che i membri di questa comunità musulmana dal 1982 sono considerati immigrati, dopo essere stati privati della loro cittadinanza birmana. I Rohingya per molti buddisti in Myanmar non sono altro che terroristi stranieri.

Papa Francesco riuscirà a non pronunciare la parola Rohingya?
Arrivato in Myanmar lunedì scorso, dopo aver prestato attenzione a un’altra minoranza religiosa, il suo stesso gregge cristiano che in passato in Myanmar è stato vittima di persecuzioni, sicuramente parlerà della situazione delle minoranze religiose, con particolare attenzione ai musulmani, negli ultimi due mesi costretti a fuggire a frotte. Ma come li chiamerà? “La situazione” come astutamente riassumeva il New York Times, è “uno scenario senza possibilità di vittoria anche per un abile mediatore politico come lui: in questo “minato campo linguistico” pronunciando la parola “rohingya”, potrebbe mettere le vite dei 700.000 cattolici che vivono in Myanmar a rischio di rappresaglia da parte dell’esercito o delle milizie; se non la dice, la sua credibilità morale potrebbe essere compromessa“.
Andrea Tornielli (per quindici anni è stato il vaticanista del quotidiano italiano Il Giornale, dall’aprile 2011 è editorialista del quotidiano La Stampa), sul viaggio del Papa in Myanmar, nel ricordare  le tensioni nate con il governo turco durante la sua precedente visita in Armenia quando, fuori protocollo, ha usato la parola “genocidio” per descrivere gli eventi del 1915, in questo viaggio ha previsto che sui diritti delle minoranze Papa Francesco di fronte ai leader del paese,  parlerà in modo chiaro senza usare la parola “Rohingya”. Seguirà i consigli della Chiesa birmana, ha chiesto di non pronunciare il nome dei Rohingya durante il suo viaggio: «Non è prudente che il Papa pronunci su suolo birmano il termine Rohingya – ha affermato il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, in un rapporto sulla situazione del Paese – perché potrebbe causare reazioni scomposte dei gruppi nazionalisti buddisti».
C’è un’altra parola che sta facendo notizia per le sue potenziali implicazioni sulla vita o la morte: “Mushrikin”, in arabo significa politeista, è quella che l’ISIS ha usato ripetutamente contro i musulmani sufi (praticano una forma mistica dell’Islam, considerati eretici dalla parte più ortodossa dei musulmani sunniti, abitano per la maggioranza il villaggio di Bir al-Adb). Il fatto che anche i sufi venerino i santi è sufficiente per il gruppo terroristico per etichettarli come eretici e quindi ucciderli, com’è accaduto recentemente. Sebbene l’organizzazione non abbia ancora rivendicato la responsabilità per la morte di almeno 305 persone uccise in una moschea nel Sinai del Nord, tutto indica che si è trattato di ISIS e della sua determinazione a eliminare gli “infedeli” dal Sinai e dal mondo musulmano.
La crisi in Myanmar con lo stesso ISIS desideroso di trasformare la piaga dei Rohingya in un grido di battaglia per una “guerra santa”, è una questione preoccupante, deve essere affrontata con urgenza e in modo appropriato. Tutto inizia con il trovare le parole giuste.

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Pino Silvestri, blogger per diletto, fondatore, autore di Virtualblognews, presente su Facebook e Twitter.
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