I sopravvissuti tornano ad Auschwitz dopo settanta anni: “Noi siamo vivi” (video)

Uomini di ottanta e novanta anni hanno camminato a fatica nella neve mista a fanghiglia ma con il piglio determinato a raggiungere ancora una volta il cancello del campo di concentramento di Auschwitz.
Mordechai Ronan ottantacinque anni è vicino all’ingresso di Auschwitz, la sua compostezza si è incrinata, inizia a piangere, tra spasmi di lacrime, ripetutamente dice: «Sono un vincitore! Sono un vincitore, perché io sono qui! Posto orribile! Ma io sono vivo! Siamo vivi!».
Mordechai Ronan prima del 1944 era qui, undicenne spaventato in qualche modo era sfuggito al processo di selezione nazista che ha consegnato alla camera a gas la maggior parte dei bambini. E’ stato il primo a raggiungere il cancello, dietro di lui una ventina di altri sopravvissuti del più noto campo di sterminio del regime nazista, tutti lì per celebrare il 70° anniversario della liberazione del campo dai sovietici il 27 gennaio 1945, evento del “Giorno della Memoria“, formalmente commemorato oggi martedì 27 gennaio 2015. Molti di loro hanno ricordato il momento in cui sono arrivati al campo, in piedi davanti al famigerato medico Joseph Mengele a guardare il segnale del suo pollice: a destra significava morte imminente nella camera a gas; a sinistra significava lavoro forzato, sopravvivenza almeno per un paio di settimane.

Testimonianze di alcuni sopravvissuti
Marcel Tuchman
aveva 21 anni quando si trovò di fronte a Joseph Mengele, con il pollice a sinistra. Aveva appena visto suo zio e due nipoti inviati alla camera a gas. Ora ha 91 anni, medico a New York, ha detto:
«Qualcuno mi aveva detto di quel fumo che saliva, l’odore di carne bruciata stava permeando l’intera area. E sapevo cosa fosse».
E’ comprensibile il senso d’incredulità degli uomini che sono sopravvissuti. Più di un milione di ebrei sono stati uccisi ad Auschwitz con il record di diecimila in un giorno nel 1944. In otto settimane più di 300.000 ebrei ungheresi (meno di un’ora per arrivare), furono inviati alle camere a gas.
Jack Rosenthal ha ottantasette anni, fu deportato dall’Ungheria, ricorda una linea, lunga sbiadita, vicino al cancello di Auschwitz: «Chi è andato oltre questo punto, è stato sparato, qualcuno mi disse che nessuno era mai uscito vivo da questo posto, quindi esserci riuscito, lo considero un vero miracolo».
I sopravvissuti americani si sono riuniti all’ombra del cancello di Auschwitz, per cantare il Kaddish, un inno di lode a Dio e per piangere famigliari e amici che hanno perso nel campo. Le loro voci risuonavano nel freddo pungente come un canto di sfida, e della vittoria sui loro torturatori. Settanta anni fa tale atto avrebbe significato la morte istantanea.
Molti di loro avevano attraversato il cancello con la scritta “Arbeit Macht Frei” (‘Il lavoro rende liberi “), credendo al motto non sapendo che era una menzogna per nascondere il loro vero destino di morte.
Harry Korma uno dei sopravvissuti ha detto: «Tutto è sembrato esattamente come l’ho lasciato, anche i fili sui recinti dove tanti uomini deliberatamente si gettarono per rimanere fulminati. Io ero qui nudo e con le scarpe di legno. Ho le lacrime agli occhi».
Alcuni dei sopravvissuti stavano in silenzio, persi nei loro ricordi. Marcel Tuchman ha detto: «Penso a coloro le cui voci sono state zittite … dobbiamo raccontare la loro storia». Oggi per la cerimonia del 70° anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, i sopravvissuti si siederanno alla fine della linea ferroviaria, a soli cento metri dalle camere a gas e forni che hanno annientato un milione e più persone. Ascolteranno discorsi e pregheranno, grideranno ancora il loro avvertimento: «Mai, lasciare che questo accada di nuovo».

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Pino Silvestri, blogger per diletto, fondatore, autore di Virtualblognews, presente su Facebook e Twitter.
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